IL KATÉCHON (7 marzo 2013)
Teologia politica dell’Europa e dell’euro
Categoria : finanzaDice l’antropologa Ida Magli che l’Europa unita dei tecnocrati di Bruxelles è una violenza inaudita contro la storia, la cultura e le tradizioni millenarie dei popoli che la abitano. Vero, ma è altrettanto vero che la pulsione verso l’unificazione è anch’essa millenaria.
L’impero romano, la prima forma di Europa unita, si scioglie nella cristianità, che nella sua forma politica è così tanto europea da espellere fin dal V secolo il cristianesimo nestoriano della Persia, dell’India e della Cina. La cristianità europea si costituisce politicamente nel Sacro Romano Impero, che evolve nel Sacro Romano Impero della Nazione Germanica e nella monarchia asburgica, che tramonta nel 1918. La parentesi napoleonica è anch’essa paneuropea e si limita a sostituire l’universalismo giuridico romano e quello cristiano dell’Impero con l’universalismo secolarizzato giacobino.
Anche il Generalplan nazionalsocialista del 1940 è geopoliticamente paneuropeo, ma inverte completamente di segno il carattere universalista del primo e del secondo Reich. Primato dell’Herrenvolk, sterminio degli ebrei e schiavizzazione degli slavi contraddicono alla radice il modello dell’unità dei popoli europei sotto l’imperatore cristiano.
Risorta dalle rovine della guerra, l’Europa adotta nuovamente un progetto di unificazione basato sull’universalismo delle regole. È europeo chiunque accetti l’Acquis Communautaire, l’insieme delle leggi europee. Il repubblicanesimo francese e il patriottismo della costituzione, l’ideologia che Habermas elabora per la Bundesrepublik, sono il modello dell’ideologia europea.
L’universalismo europeo, nei suoi venti secoli di storia, non varca mai la soglia geopolitica continentale. L’Inghilterra normanna prova a installarsi in Francia, ma dopo la guerra dei cent’anni e la sconfitta se ne va per sempre dall’Europa, le dà le spalle e si rivolge agli oceani. Vi rimetterà piede solo per togliere di mezzo Napoleone, Guglielmo II e Hitler e per controllare, aderendo all’Unione Europea, che i burocrati di Bruxelles non le procurino danni. La Svezia se ne scende in Germania durante la guerra dei trent’anni ma da quel momento si ritira in uno splendido isolamento. L’adesione svedese e danese all’Europa è pragmatica, non ideologica. Metà dentro, metà fuori. E niente euro. La Turchia, dal canto suo, mette l’universalismo delle regole di Bruxelles di fronte a una contraddizione insanabile.
Il progetto europeo trova un limite non solo nella geopolitica, ma nella sua stessa genealogia. L’Europa, lungo i secoli, non si costituisce solo come fortezza tendenzialmente unificata per difendere dagli attacchi esterni la sua fede e il suo diritto, ma anche per difendersi da se stessa. L’Europa, da quando esiste, ha paura di se stessa, della guerra di tutti contro tutti e dell’anarchia in cui tende a precipitare quando perde la bussola dell’universalismo.
Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, scritta nel 52 d.C., Paolo invita la comunità cristiana ad avere pazienza. La Parousia, il ritorno del Cristo nel mondo, non è imminente. Prima del ritorno, come indica il libro dell’Apocalisse, sarà l’Anticristo a conquistare e sedurre i cuori degli uomini. Se l’Anticristo non ha ancora portato nel mondo il disordine (mysterium iniquitatis nella versione latina, anomia in quella greca) è perché qualcosa lo trattiene.
Il trattenitore (katéchon), in una tradizione teologico-politica bimillenaria che va da Tertulliano a Carl Schmitt, è l’imperatore romano, carolingio, asburgico, fino ad arrivare ai giorni nostri, volendo, all’Unione Europea, a Van Rompuy e alla Merkel. Il soggetto politico paneuropeo, nell’elaborazione di una corrente potente di giuristi, teologi e filosofi filoimperiali, diventa la difesa ultima contro l’anomia, la mancanza di regole e il disordine interno connaturato all’Europa.
Nella teologia della storia, come si vede, esiste una fortissima tensione irrisolta. È meglio arginare il disordine il più a lungo possibile, ritardando però in questo modo, oltre al disordine, anche l’instaurazione dell’ordine finale e la fine della storia o è invece meglio accelerare il disordine per renderne possibile la sconfitta finale? Robespierre, Lenin, Trotzkij e gli apocalittici in generale teorizzano l’accelerazione del disordine nel nome di un nuovo ordine che verrà. Il resto del pensiero occidentale preferisce arginare il disordine il più a lungo possibile.
La crisi politica italiana ripropone questa tensione. È meglio contenere il disordine e restare aggrappati all’euro (il nuovo katéchon) o è preferibile fare saltare tutto, mollare gli ormeggi, navigare da soli per qualche tempo e poi ricostruire l’Europa su basi nuove e finalmente durature?
Per ragionare bene è meglio sgombrare il campo dall’europeismo bigotto, quello che giudica incivile chi si colloca fuori dall’orizzonte tecnocratico di Bruxelles e considera l’euro un tabù. Diciamo quindi che si può benissimo vivere senza euro e che Svezia e Danimarca, che se ne stanno fuori (la corona danese è agganciata all’euro, ma può sganciarsi quando vuole), sono anzi indicate da qualche anno come esempi eccellenti di conservazione di uno stato sociale snellito (e in via di privatizzazione), di crescita economica (niente decrescita felice) e di tassazione in costante diminuzione.
Spingiamoci ancora più in là e sgombriamo il campo anche dal tabù della svalutazione. Non è vero che sia sempre una rovina, anzi. Se ben gestita può ridare energia e slancio. Tutto il mondo (tranne i concorrenti coreani e tedeschi) si sta complimentando con il Giappone per il rapido deprezzamento dello yen. Perché dovrebbe essere diverso per Italia e Spagna?
Nella vita, d’altra parte, non si può avere tutto. Non si può mantenere a lungo un sistema rigido al suo interno e un cambio rigido sull’esterno. Troppo bello. Si devono quindi fare delle scelte. Si può mantenere rigida la struttura interna e scaricare le tensioni su un cambio flessibile (modello argentino). Si può mantenere fisso il cambio e rendere flessibile la struttura interna (modello irlandese ed estone). Si può rendere più flessibile la struttura interna e allo stesso tempo svalutare, come fu fatto in Svezia dopo la crisi bancaria dagli anni Novanta. In quel caso, grazie all’accresciuta flessibilità interna, la svalutazione fu temporanea e fu seguita più tardi, dal 2009 a oggi, da una costante rivalutazione.
Se invece si vuole tenere rigido tutto, mercato del lavoro e cambio, le tensioni si scaricano sulle imprese, che piano piano fanno ciao con la mano e se ne vanno all’estero. È la deindustrializzazione, il modello italiano.
È a questo punto che dobbiamo guardarci negli occhi e fare qualche discussione da adulti. Se usciamo dall’euro saremo capaci di fare come la Svezia e di accompagnare la svalutazione con una flessibilizzazione della nostra struttura o non seguiremo piuttosto la via argentina, quella di mantenerci eternamente rigidi ricorrendo periodicamente alla svalutazione? La via argentina porta a un rimpicciolimento costante dell’economia in rapporto agli altri paesi. Questo ridimensionamento, nel caso argentino, è rallentato dalla scoperta continua di risorse naturali abbondanti. Noi, queste risorse, non le abbiamo. Quanto alla nostalgia degli anni pre-euro, non dimentichiamo che tranquillità e benessere ce li compravamo, oltre che svalutando, con un debito pubblico crescente.
Messe contro il muro, le singole classi dirigenti nazionali del nostro continente continuano dunque a scegliere l’Europa e l’euro non per idealismo, ma perché hanno paura di se stesse. Detto questo, l’euro è costruito così male e l’austerità disegnata dalla Germania è così controproducente che lo spazio per migliorare il progetto complessivo è davvero ampio.
Qualcosa sta già cambiando e non è poco. Tutti gli obiettivi di disavanzo pubblico sono rinviati di un anno. Ha cominciato la Spagna, ha proseguito il Portogallo e ora tocca a Francia e Italia. Tutta la politica fiscale europea sta passando da fortemente restrittiva a neutrale e perfino espansiva. A questo sta corrispondendo un modesto irrigidimento della politica monetaria, ma l’effetto combinato monetario e fiscale è di fatto espansivo. Non si può dirlo forte, ma l’austerità è rinviata e forse è finita.
Guadagnare un anno non è una brutta cosa, ma per massimizzare e prolungare nel tempo gli effetti di questa boccata d’ossigeno bisognerà che la Germania sostituisca obiettivi qualitativi ai target numerici che ha fin qui imposto ai suoi partner. È meglio una riforma strutturale di un aumento di tasse, è meglio un taglio di spese accompagnato da una riduzione di tasse piuttosto che un disavanzo tagliato con stangate fiscali.
La crisi italiana, per il momento, ha comunque la fortuna quasi sfacciata di cadere in un momento di mercato assolutamente magico. Le imprese americane producono e assumono per ricostituire scorte. I consumi vanno piano, ma la discesa appena iniziata del prezzo della benzina li farà risalire. Sia come sia, una crescita debole conferma la Fed nella sua volontà di perseguire una politica monetaria aggressivamente espansiva a perdita d’occhio. La politica fiscale leggermente restrittiva, grazie anche ai tagli automatici di bilancio che stanno per scattare, non cambia la natura complessivamente pro-crescita della politica economica americana.
Il Giappone si è ormai avviato verso una strada di reflazione a tappe forzate. In Cina la nuova leadership si sta mostrando prudente, ma è probabile che nei prossimi mesi accentui gradualmente il suo profilo pro-crescita. La Germania ha ripreso a camminare (piano) e il resto d’Europa va un po’ meno peggio del previsto. Le borse si trovano poco al di sotto dei massimi storici del 2008 e si sa che in questi casi la voglia di fare segnare un nuovo record è praticamente irresistibile.
Nel breve tutti i semafori sono verdi e i vigili delle banche centrali sorridono e fanno segno di accelerare. La crisi italiana è un motivo in più per allestire un cordone sanitario fatto di buonumore e propensione al rischio. Nelle prossime settimane le cose cominceranno a complicarsi. Fatti nuovi massimi, i mercati si sentiranno più incerti. I tagli americani toglieranno 650mila nuovi occupati al mese. I dati macro che verranno pubblicati in maggio e giugno saranno piuttosto grigi. C’è però ancora tempo.
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