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domenica 24 marzo 2013

LA CORSA CONTRO IL TEMPO (21 marzo 2013)

Niente più euro se la recessione non finisce presto

Categoria : finanza 

La disinvolta richiesta europea di congelare i depositi bancari di Cipro e di confiscarne un decimo ha suscitato due reazioni opposte, molto polarizzate ed entrambe fuorvianti.
La prima minimizza. L’economia di Cipro è minuscola, si dice. È un quarto di quella greca. Krugman, che ha fatto i conti, sostiene che ha la stessa dimensione della cittadina di Scranton, contea di Lackawanna, Pennsylvania nordorientale. L’Europa ha già chiarito che si tratta di misure che non verranno riprese in altri paesi. Tra i depositanti, d’altra parte, ci sono parecchi russi e, nell’opinione diffusa, ben gli sta. Sette miliardi di esseri umani non possono poi paralizzarsi nella paura per i problemi di un milione di ciprioti. I mercati hanno sbandato qualche ora, ma non è altro che la correzione che si aspettava da tempo. Il fatto che sia durata così poco dimostra solo l’impressionante forza del bull market. Si può quindi tornare tranquillamente a comprare.
La seconda reazione drammatizza. Paventa un’imminente ondata di fuga dalle banche di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia e, come conseguenza in tempi brevi, una crisi bancaria continentale, il vano tentativo di arginarla attraverso la nazionalizzazione del credito e la rapida fine dell’euro. È come se ci fosse una scritta al neon, dice sempre Krugman schierandosi con questa scuola di pensiero, che dichiara aperta, in greco e in italiano, la corsa al ritiro dei depositi.

In realtà c’è del vero in entrambe le posizioni. Anche se la crisi di Cipro non è affatto finita, un rattoppo verrà trovato e l’episodio verrà rapidamente archiviato senza dare luogo a contagio. I depositi bancari, in Europa, sono molto stabili. Lo sanno bene le banche, che non di rado abusano della pigrizia e della rassegnazione dei loro clienti. In America tutti stanno invece molto attenti a non tenere più di 100mila dollari in ogni singola banca e le imprese comprano T-bill a tasso negativo per la loro tesoreria pur di non tenere un centesimo a tasso zero in banca. Gli economisti americani, partendo dalla loro realtà e pensando che in Europa i comportamenti siano gli stessi, da tre anni, a ogni episodio della crisi europea, ipotizzano la fuga dalle banche, che puntualmente non si materializza. In Europa, del resto, è da decenni che le crisi bancarie non procurano danni ai correntisti. L’unica eccezione recente di qualche rilievo è l’Islanda, dove il mancato rimborso è stato peraltro subito dai soli correntisti stranieri.


La pessima novità che viene da Cipro, quanto meno nella versione iniziale concordata con la Troika, è che questa vera o presunta sacralità dei depositi bancari è palesemente venuta meno. Questo non significa una fuga immediata nel resto dell’Eurozona. Significa però che alla prossima crisi seria in Spagna o Italia, la fuga si potrà verificare per davvero. Il piano della Troika rischia dunque di funzionare da formidabile acceleratore di instabilità non questa, ma tutte le prossime volte.


I danni di questo improvvido piano non finiscono qui. L’Europa si mostra inaffidabile ogni volta di più, prende decisioni in modo erratico e mena fendenti o alla cieca o mirando più a difendere gli interessi francotedeschi che quelli dei paesi in crisi. Su Cipro si è discusso per otto mesi e poi si è deciso improvvisamente alle tre di notte di sabato perché tutti volevano andare a dormire e non ne potevano più. Si fa bullismo con i paesi piccoli (ma lo si è fatto e lo si farà ancora anche con l’Italia) e si chiudono due occhi sulle inadempienze francesi o tedesche.
Nel disegnare i piani di salvataggio si agisce senza regole. In Grecia si colpiscono le obbligazioni del sovrano e si salvano quelle delle banche. In Irlanda e Spagna si fa il contrario. A Cipro tocca ai correntisti, mentre i bond del sovrano non vengono toccati. All’Italia, se mai sarà il caso, toccherà una patrimoniale universale, sulla quale si esercitano da due anni numerosi uffici studi tedeschi. Sul debito senior e junior delle banche è tutto à la carte.
Certo, le situazioni sono diverse e anche in America, nei salvataggi del 2008, non tutto è stato coerente ed è filato liscio. La risoluzione delle banche fallite ha però funzionato complessivamente bene e la ricapitalizzazione forzata delle grandi banche è stata aggressiva e tempestiva, mettendo al riparo il sistema da ricadute. In Europa (Germania compresa) si è scelto invece il metodo del caso per caso, si è proceduto caoticamente e con agonizzante lentezza e il risultato è che le banche continentali sono ancora molto deboli. Draghi, con l’Ltro, ha rimediato sul fronte della liquidità, ma su quello del capitale, dal Manzanarre al Reno, siamo tutti molto, molto indietro.


Il fatto che i piani di salvataggio abbiano tutti una forte impronta tedesca non è dovuto tanto al fatto che la Germania ci mette più soldi di tutti quanto al fatto che i tedeschi vi si preparano molto seriamente, mentre gli altri non ci pensano. L’Italia, per la piccola Cipro grande come Scranton, verserà (una tantum) 750 milioni, un quinto di Imu annuale e quello che, realisticamente, si potrebbe risparmiare abolendo le province. Mentre però di Imu e province si è discusso ad nauseam, di Cipro e del suo costo ci siamo tutti accorti, con l’eccezione di una ristrettissima cerchia di addetti ai lavori, sabato sera, a cose fatte. In Germania si parla dei costi di Cipro da più di due mesi e tra grandi polemiche sulla stampa e tra ipartiti, tanto che la Merkel, in tutto questo tempo, ha sempre avuto molta paura del passaggio al Bundestag, che a questo punto si profila ancora più impegnativo.
Questa attenzione da parte dell’opinione pubblica tedesca si traduce puntualmente, da parte della Merkel, nel tentativo di placare il malumore dei suoi elettori introducendo in ogni piano di salvataggio qualche elemento particolarmente e teatralmente punitivo e sgradevole per i paesi in crisi o per particolari categorie invise al tedesco medio (i russi troppo immorali o, in futuro, i privati italiani che sono mediamente più ricchi di lui). Questo spirito pedagogico e dimostrativo introdotto a forza nei piani altera la loro razionalità e coerenza, ne indebolisce l’efficacia e crea effetti collaterali costosissimi, come si è visto con la Grecia (costata alla fine molto di più di quanto non sarebbe costata se salvata in tempo senza essere punita) e come speriamo di non vedere la prossima volta sui depositi bancari di mezza Europa.


La vicenda di Cipro aumenta la sfiducia sull’euro e sull’Europa in un momento in cui proprio non ce ne sarebbe bisogno. A onore della Merkel bisogna dire che in questo modo i pacchetti di salvataggio riescono a passare al Bundesbank, mentre l’opposizione interna all’euro rimane abbastanza circoscritta. Se però il prezzo è l’avvitamento nell’austerità e nella recessione di mezzo continente è solo questione di tempo prima che l’opposizione all’euro nei paesi in crisi (e, specularmente, in Germania) si coaguli e prenda forza. Tre anni fa, ai primi segni di crisi economica, molti osservatori hanno ipotizzato fratture sociali e stati di rivolta che poi non si sono verificati. Oggi si rischia di cadere nell’errore di credere a una tenuta permanente di società e modelli politici che non sono per nulla attrezzati per una decrescita senza fine. Il benessere accumulato nel dopoguerra ha molto attutito la crisi e ha rallentato i tempi di reazione, ma il voto italiano mostra che la capacità di soffrire senza intravedere una via d’uscita non è infinita.
L’euro, dunque, non ha molto tempo per mostrare di essere qualcosa di più di uno strumento per fare follie prima e penitenze senza fine più tardi. 


La Merkel, che ha un grande senso del timing e un’eccellente percezione del momento in cui la corda tirata rischia davvero di spezzarsi, ha compiuto una prima spettacolare ritirata in agosto con l’accettazione della mutualizzazione del debito attraverso la Bce e ne sta compiendo una seconda, altrettanto spettacolare, sulla politica fiscale dei paesi mediterranei in crisi, cui vanno aggiunte Francia e Olanda in stagnazione. L’austerità è finita, gli obiettivi di disavanzo sono stati spostati in avanti nel tempo e tutto fa pensare che non verranno nemmeno rispettati.
Il motore fiscale della stabilizzazione (e di una debole ripresa) è dunque già partito, ma la crisi che ci portiamo dietro produrrà ancora, inerzialmente, effetti ritardati particolarmente sgradevoli, come l’aumento della disoccupazione in Italia nei prossimi mesi.
È probabile che riusciremo ad attraversare questi mesi di transizione senza strappi irreversibili. È probabile dunque che alla fine l’euro tenga, anche perché le classi dirigenti europee non hanno un piano B o ne hanno comunque paura.


Per chi investe questo delicato periodo dovrà essere affrontato diversificando prudenzialmente fuori dall’Europa. Non c’è nessun bisogno di farsi prendere dalla paura o di fare le cose in fretta. Si può procedere ordinatamente, vendendo un po’ di Europa nei momenti favorevoli e comprando Asia e America su ribasso.
Ripetiamo. La scommessa è che l’euro tenga e che l’economia europea si stabilizzi (probabilmente si sta già stabilizzando). Si tratta solo di non farsi trovare troppo impreparati nel caso questa scommessa si rivelasse sbagliata.


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domenica 17 marzo 2013

ETEROGENESI DEI FINI (14 FEBBRAIO 2013)


Saccheti di plastica , glaciazioni e rivoluzione energetica


Categoria : finanza

Ex bono malum. San Francisco, nel 2007, è stata la prima città americana a bandire i sacchetti di plastica e a incentivare l’uso di sporte per la spesa riutilizzabili. Uno studio molto accurato, condotto da tre università e pubblicato nelle scorse settimane, è arrivato alla conclusione che l’introduzione delle borse riutilizzabili ha coinciso con un brusco aumento permanente delle visite in pronto soccorso per infezioni batteriche (escherichia coli, salmonella, toxoplasmosi, campylobacter). Per queste infezioni in più sono morte, nella sola San Francisco, 5.4 persone ogni anno. La stessa correlazione è stata verificata puntualmente in altre città in corrispondenza dell’introduzione del divieto dei sacchetti usa e getta. La buona notizia è che un lavaggio accurato della sporta riutilizzabile elimina il 97 per cento dei batteri. La cattiva notizia è che solo il 2 per cento la lava davvero ogni volta.
600 milioni di sporte riutilizzabili sono state importate negli Stati Uniti nel 2012.Ex malo bonum. 


Curt Stager è un paleoclimatologo e insegna al Paul Smith’s College tra le foreste dell’Adirondack, là dove lo Stato di New York confina con il Canada. È abituato a misurare il tempo non sui secoli o i millenni, ma sui milioni di anni. Guardando alle conseguenze dell’effetto serra, quindi, il suo sguardo non si ferma al futuro prossimo, ma si spinge più in là. Il suo libro del 2011, Deep Future, ragiona di clima ed evoluzione della vita nei prossimi centomila anni.
Stager è molto pacato nei suoi ragionamenti e il libro, pur essendo tecnico, è di scorrevole lettura. È piaciuto molto agli ambientalisti, che hanno spesso ripreso una delle sue tesi, quella per cui i prossimi cento anni di uso di combustibili fossili cambieranno il clima per i prossimi centomila.
A leggere bene il libro, tuttavia, si scopre che Stager non è particolarmente pessimista. Nel giro di un paio di secoli le risorse fossili saranno necessariamente esaurite e il danno ambientale, per quanto ampio, sarà comunque limitato. La nostra vecchia Terra impiegherà centomila anni per ripulirsi, ma alla fine ce la farà.
Certo, nota Stager, nei prossimi decenni i mari si alzeranno di qualche metro e farà più caldo. Le conseguenze del nostro uso spensierato dei fossili saranno pesanti per i nostri nipoti, ma i loro discendenti otterranno in cambio un vantaggio colossale, quello di evitarsi, fra cinquantamila anni, la prossima glaciazione. Il riscaldamento globale sta alla glaciazione, secondo l’autore, come una rissa da bar sta alla guerra termonucleare. Glaciazione significa ricoprire con tre-quattro chilometri di ghiaccio l’America del Nord fino all’altezza di San Francisco e Washington e l’Eurasia fino al Mediterraneo (che sparirebbe) e alla Cina centrale. A essere sfortunati il ghiaccio potrebbe arrivare all’equatore, come accadde nel Criogeniano 600 milioni di anni fa, quando la glaciazione durò 100 milioni di anni.


Stager, nel 2011, non poteva prevedere la portata epocale della rivoluzione energetica in corso nel Nord America. C’erano già il gas e il petrolio non convenzionali, naturalmente, e si era già capito che le riserve di fossili effettivamente utilizzabili andavano probabilmente raddoppiate rispetto alle stime precedenti. L’uso di nuove tecniche di estrazione si andava diffondendo rapidamente, ma la riconversione del parco automobilistico dalla benzina al gas, per fare un esempio, pareva ancora lontana. Il solo T. Boone Pickens, profeta solitario, era impegnato nella predicazione del gas come strumento di indipendenza energetica per gli Stati Uniti e di riduzione dell’effetto serra. Poi le cose sono andate accelerando. Nel marzo del 2012 Edward Morse pubblica per Citi un lungo studio seminale, Energy 2020: North America, the New Middle East? Entro la fine del decennio, dice, il Nord America sarà autosufficiente e potrà smettere di tremare a ogni manifestazione di instabilità mediorientale. Morse non è solo un professore che ha insegnato a Princeton, ma ha una lunga esperienza al Dipartimento di Stato sotto Carter e Reagan. Da qui la sensibilità politica che rende ancora più interessanti le sue tesi.


Lo studio di Morse diventa rapidamente senso comune, ma nonostante il suo tratto visionario viene in pochi mesi superato dagli eventi, tanto da indurre l’autore a pubblicare in questi giorni una nuova riflessione, Energy 2020: Independence Day. Lo sviluppo della filiera energetica, pur estremamente disordinato, è così impetuoso che gli Stati Uniti, che fino al 2007 importavano più di 5 milioni di barili al giorno (in prevalenza dal Medio Oriente e dal Golfo di Guinea) non avranno più bisogno di importare una goccia di Light Sweet già da quest’estate, mentre per le altre gradazioni di greggio sarà sufficiente il ricorso sempre più modesto alla produzione canadese. Già prima del 2020, dunque, gli Stati Uniti non solo saranno completamente autosufficienti ma saranno diventati un grande paese esportatore.
Va detto che questa rivoluzione sta avvenendo senza nessuna pianificazione politica e in un regime di sostanziale laissez faire. La politica, là dove interviene, non lo fa per incentivare o programmare, ma per ostacolare o rallentare. L’Alaska è ancora in ampi tratti off limits per l’esplorazione, come buona parte della costa atlantica e pacifica. Le esportazioni di greggio e di gas sono vietate, anche se il divieto viene aggirato esportando benzina e prodotti raffinati. Il greggio dei nuovi giacimenti viene trasportato in treno verso raffinerie lontane migliaia di chilometri perché la costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti è boicottata da Washington anche quando le comunità locali non hanno obiezioni. L’effetto combinato del forte e continuo calo di consumi (il 10 per cento in meno rispetto al 2007) e dell’esplosione della produzione fa sì che si comincino ad avvertire seri segni di sovracapacità. Gli Stati Uniti hanno sempre meno bisogno del petrolio canadese e il risultato è che il Canada non sa letteralmente più cosa fare della sua produzione. L’esportazione verso l’Asia, un punto strategico nei piani dell’amministrazione Harper, procede con il contagocce per l’opposizione degli ambientalisti alla costruzione di un oleodotto dall’Alberta al Pacifico e di un altro verso l’Atlantico. Il risultato è il collasso del prezzo del greggio canadese, che nelle scorse settimane è arrivato a toccare un minimo di 50 dollari. Siamo di fronte a un classico shock da offerta con effetti deflazionistici che si stanno già ripercuotendo sui prezzi delle case, per la prima volta in discesa dopo un lungo bull market. Una ragione in più per considerare arrivato il dollaro canadese e venderlo a favore di quello degli Stati Uniti.


L’emergere prepotente del Nord America, che si accompagna a una forte ripresa della produzione messicana (una ragione in più per comprare i Bonos finanziandosi in dollari), non è il solo dato da segnalare nel panorama energetico globale in rapida trasformazione. Il Golfo di Guinea si conferma sempre più forte, la costa indiana dell’Africa dà grandi soddisfazioni, Brasile e Argentina si rivelano ricchi di potenziale, anche se le interferenze politiche rendono poco redditizia la produzione.
Ci sono anche i perdenti. Il Venezuela, la Russia, l’Iran e l’Arabia Saudita sono accomunati dalla difficoltà (a volte tecnica, a volte finanziaria o politica) nella ricerca di nuovi giacimenti che diano il cambio a quelli in via di esaurimento. Si tratta anche di paesi che hanno impostato la loro politica fiscale su un prezzo del greggio più alto di quello che vedremo nei prossimi anni (Morse ipotizza un livello di 70-90 dollari). Produzione stagnante e prezzo in calo renderanno più difficile comprare il consenso. I governi saranno più fragili. L’Opec, dal canto suo, ha gli anni contati. L’Europa, paese importatore, godrà di prezzi decrescenti, ma comunque molto più alti di quelli americani. Il risultato sarà il trasferimento in America (peraltro già iniziato) di parti ampie del settore automobilistico, di tutta la chimica, del cemento, dell’acciaio e in generale di tutta l’industria pesante.
È interessante paragonare la situazione americana con quella tedesca. In entrambi i paesi c’è sovrabbondanza di energia. Il boom dei fossili negli Stati Uniti e quello delle rinnovabili in Germania sono stati disordinati e convulsi e hanno lasciato in eredità un’offerta abbondante che non si sa come gestire per mancanza di infrastrutture (oleodotti in America e reti elettriche ad alta capacità in Germania). La differenza è che i prezzi per le industrie e le famiglie sono molto bassi in America e molto alti in Germania (e crescenti in Francia). Le rinnovabili europee sono infatti sussidiate e il costo del sussidio è scaricato sul consumatore.
Paradossalmente, l’America sempre più fossile produce sempre meno gas serra, mentre l’Europa sempre più rinnovabile ne produce sempre di più. Gli Stati Uniti stanno infatti sostituendo carbone e petrolio con il meno inquinante gas, mentre la virtuosa (nelle intenzioni) e costosa Europa sostituisce il nucleare con il carbone. 

Il trionfo dell’eterogenesi dei fini. Provando in ogni caso ad assumere il punto di vista di Stager sui prossimi centomila anni, la rivoluzione energetica in corso non sta comportando un aumento netto dell’effetto serra.

La rivoluzione energetica pone invece formidabili sfide a chi investe. C’era un tempo, fino a ieri, in cui funzionavano schemi molto semplici. Ripresa economica uguale rialzo di tutti i comparti energetici, rallentamento uguale ribasso. Lo shock da offerta in corso può però produrre un ribasso dell’energia anche in presenza di un’accelerazione del ciclo. Lo shock può poi attrarre capitali senza però remunerarli adeguatamente (si pensi al petrolio brasiliano). La sovraproduzione può portare alla crisi (e perfino all’insolvenza) società che sembravano scoppiare di salute fino a un momento prima. C’è poi la segmentazione geografica, acuita dalla mancanza di infrastrutture di trasporto.
Al di là delle complesse ramificazioni della rivoluzione energetica resta il suo aspetto fondamentalmente positivo per l’economia globale, paragonabile per importanza strutturale al Quantitative easing. In un mondo appesantito dall’invecchiamento demografico e dalla crisi fiscale porta un sostegno decisivo. Appaiono a questo punto un po’ meno temibili, nei prossimi anni, crisi geopolitiche improvvise come la Libia del 2011 o la stessa ipotesi di un attacco all’Iran.
Gli shock positivi da offerta, del resto, hanno la piacevole caratteristica di essere positivi tanto per i mercati azionari quanto per gli obbligazionari.
Venendo all’immediato, il rialzo di Wall Street comincia ad apparire un po’ inerziale, una sorta di schiuma che monta dopo che si è finito di versare la miscela di dati macro e dati societari complessivamente migliori, anche se non di molto, rispetto alle attese. A questo punto, tuttavia, l’asticella per le sorprese positive è stata alzata. Pur rimanendo strutturalmente ottimisti sull’azionario (e non troppo pessimisti sull’obbligazionario) continuiamo a pensare che nel breve sia sufficiente un’allocazione azionaria neutrale.


IL QUINTO ANNO ( 14 MARZO 2013)

Il rialzo azionario viene aperto al pubblico

Categoria : finanza


La borsa di New York e quella di Francoforte, a quattro anni esatti dai minimi, si trovano di nuovo sui massimi storici del 2007. Dai minimi del 2009 l’SP 500 è salito del 134 per cento, mentre la borsa tedesca è raddoppiata. Anche la produzione industriale dei due paesi è tornata sui livelli pre-crisi.
Gli utili per azione dell’SP 500, nel 2007, erano di 83 dollari. Nel 2013, secondo David Kostin di Goldman Sachs, saranno di 107. Il rapporto tra prezzo dell’indice (1555) e utili (107) è 14.5.
I bull market azionari, come le famiglie felici di tolstoiana memoria, si assomigliano tutti tra loro, quanto meno nelle fasi psicologiche che attraversano. All’inizio, quando i prezzi sono stracciati e si dovrebbe comperare ad occhi chiusi, prevale il pessimismo. Il primo anno di rialzo è vissuto con estremo scetticismo, si parla di un rimbalzo tecnico cui seguiranno nuovi minimi ancora più devastanti. Sono i mesi interminabili in cui non si parla d’altro che di double dip. Chi manifesta l’intenzione di comprare è trattato come un incauto e deve portare mille certificati di salute mentale e finanziaria prima che l’intermediario si degni di acquistargli qualcosa.
Il secondo anno vede il terrore di una ricaduta dissiparsi gradualmente. Del double dip continua a parlare una minoranza di perma-bear, ma il mercato si comincia invece a preoccupare di una possibile ripresa dell’inflazione, dell’avvio di un ciclo di rialzo dei tassi e di un crollo del comparto obbligazionario.
Nel terzo e quarto anno si comincia ad accettare l’idea del bull market, ma si preferisce lo stesso rimanerne fuori. Il ricordo del crash è ancora fresco e la prudenza prevale sull’avidità.
Nel quinto anno si spalancano le porte dei mercati a tutte le classi di investitori. Comprare azioni diventa una cosa normale e giusta, perché così fan tutti. Chi passa un ordine d’acquisto all’intermediario si vede trattato come chi ha fatto un’ottima scelta, intelligente e assennata. Nessuno chiede al compratore se è sicuro di quello che fa e se il suo acquisto, peraltro ancora senza leva, è compatibile con la sua salute finanziaria complessiva. Nessuno fa notare al compratore che poteva anche svegliarsi prima. Tutti hanno infatti l’impressione che il rialzo stia cominciando in quel momento e che i quattro anni precedenti non siano che un lungo prologo o, come si dice oggi, un prequel.
Questa è la fase in cui ci troviamo in questo 2013. Ci si sveglia dal letargo, riposati e pieni d’energia, e si inizia la grande e graduale migrazione di massa verso l’equity. I prezzi di borsa, ovviamente, non sono più bassi. Sono però giusti e chi compra ha l’impressione di non strapagare.
Dal sesto anno in avanti i prezzi cominciano a essere alti. È questa la fase in cui gli intermediari rincorrono gli investitori e propongono loro di finanziare a leva ulteriori acquisti. Chi non compra è considerato e si considera uno stupido, un perdente. Le quotazioni sempre più alte vengono spiegate con la teoria che questa volta è diverso. L’eccitante novità delle ferrovie a vapore, della radiofonia, di Internet (o dei tassi d’interesse eccezionalmente bassi) rende obsolete le metriche tradizionali e giustifica il ricorso a nuovi strumenti in sintonia con i tempi.
Naturalmente ogni bull market presenta qualche sua caratteristica originale. Il nostro, che verrà ricordato come il rialzo degli anni Dieci, è accompagnato da una crescita molto bassa, anche se costante, da tassi altrettanto bassi, da una monetizzazione del debito sempre più aggressiva e dall’esistenza di un’area problematica, l’Europa, vasta, importante e potenzialmente esplosiva.
Arrivati a questa altezza, prima di celebrare e di comperare aggressivamente è bene fare una verifica della solidità del quadro d’insieme e delle sue parti.
Il quadro d’insieme vede i due motori principali della crescita, Stati Uniti e Cina, incamminati su una via di espansione sostenibile. La crescita americana, per quanto poco esaltante, è molto solida e non è inflazionistica. I fattori che la sostengono sono numerosi e ben diversificati (edilizia, auto, reindustrializzazione, energia, solidità delle banche, ripresa degli investimenti). La loro forza bilancia la graduale diminuzione dello stimolo fiscale e lascia spazio per una crescita tendenziale netta vicina al 2 per cento.
La Cina, che negli ultimi giorni ha pubblicato una serie di dati deludenti, è comunque impegnata in un grandioso progetto di urbanizzazione che la terrà impegnata nei prossimi due decenni. Chi si preoccupa per qualche migliaio di palazzi vuoti deve considerare i 200-300 milioni di persone che nei prossimi anni si trasferiranno dalle campagne e andranno ad abitarli. Quanto al breve termine, ricordiamo che le vendite d’auto sono su nuovi massimi storici, così come la produzione di acciaio, per la quale si era cominciato a temere un declino strutturale e irreversibile.
Ai due motori principali va poi aggiunto un Giappone che sta ritrovando aggressività sulla base di politiche finalmente diverse da quelle degli anni Novanta. Basta con i ponti verso isole deserte e le autostrade in mezzo al nulla, la nuova linea è di riformare il lato dell’offerta, non solo di alimentare domanda purché sia. Quanto all’America Latina, oltre a un Messico particolarmente dinamico e sicuro di sé va considerato un Brasile più incerto, pasticcione e contraddittorio nelle sue scelte, ma pur sempre in grado di produrre un tasso di crescita non disprezzabile.
Se non si considera l’Europa il mondo appare dunque piuttosto solido e perfettamente in grado di giustificare i livelli attuali dei mercati azionari.
C’è però l’Europa, come è noto, dove la crisi continua e per certi aspetti si aggrava. Il paese più sano, la Germania, è entrato in una fase di crescita bassa dovuta alla piena occupazione e alla scarsità di investimenti. Dopo quello dei primi anni Duemila, un nuovo ciclo di grandi ristrutturazioni è annunciato da molte importanti imprese. È un fatto positivo per i loro azionisti, ma avrà qualche conseguenza negativa sull’occupazione e sulla domanda interna. La Francia riuscirà a evitare un prolungamento della recessione solo con un disavanzo pubblico più alto. La Spagna è sempre in contrazione e non riuscirà nemmeno quest’anno a riavviare la domanda interna. Un piccola luce è però visibile, l’export in crescita grazie al recupero di competitività. L’Italia è molto più indietro su questo terreno.
Preoccupa, in Europa, la perdita di consenso rispetto all’euro, non solo in Italia ma anche in Germania. La situazione non è ancora compromessa, ma perché non si mettano in moto processi di disgregazione irreversibili occorre che non si facciano errori e che il resto del mondo continui a crescere. Anche a queste condizioni, tuttavia, l’assetto europeo rimane molto precario. Con una Germania che annuncia tutta soddisfatta l’obiettivo di un surplus di bilancio dal 2016 e con una Bce che, unica tra le grandi banche centrali, sta riducendo la base monetaria dell’eurozona è difficile trovare driver di crescita. C’è l’allentamento fiscale, certo, ma in mancanza di riforme di struttura (difficili da intravedere in Italia e Francia) ci si limiterà a guadagnare un po’ di tempo mentre il debito continua a crescere.
L’impressione, quindi, è che la crisi europea, in questo 2013, sarà congelata, non risolta. I mercati si faranno bastare il silenzio della Germania su quello che sta succedendo intorno a lei, un silenzio che durerà fino alle elezioni di settembre. Nel frattempo si metteranno cerotti sbrigativi qua e là, come si sta facendo con Cipro e come si farà con la Slovenia. Quanto all’Italia, si proverà, qualunque cosa succeda, a girarsi dall’altra parte e a invocare il cielo. I mercati attaccheranno lo spread solo se avvertiranno un espresso disappunto tedesco. Se questo, come è probabile, non verrà manifestato, i Btp saranno oggetto quando necessario di piccoli avvertimenti, non di attacchi frontali.
Il 2013 è un anno in cui le borse tenderanno a salire per inerzia, non per fattori positivi non ancora scontati. Le banche centrali non le disturberanno in nessun modo. Un’accelerazione della crescita, paradossalmente, potrebbe interrompere il bull market e suscitare l’attesa di politiche monetarie meno espansive, ma difficilmente si verificherà.
Detto questo, anche i bull market inerziali e benedetti dalle banche centrali hanno i loro momenti di pausa e di ritracciamento. Le borse corrono senza interruzioni significative ormai da più di nove mesi e una pausa sarebbe fisiologica. I dati macro americani sono stati negli ultimi tempi piuttosto buoni, ma l’asticella delle attese a questo punto si è alzata e qualche delusione potrebbe creare il pretesto per una correzione.
Rimaniamo moderatamente positivi sul dollaro, negativi sulla sterlina e neutrali, nel breve, sullo yen. I bond non soffriranno di tutti quei mali che molti pronosticano loro, ma offriranno, salvo qualche eccezione, un ritorno modesto a chi ancora crede in loro.


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lunedì 11 marzo 2013

IL KATÉCHON (7 marzo 2013)


Teologia politica dell’Europa e dell’euro

Categoria : finanza

Dice l’antropologa Ida Magli che l’Europa unita dei tecnocrati di Bruxelles è una violenza inaudita contro la storia, la cultura e le tradizioni millenarie dei popoli che la abitano. Vero, ma è altrettanto vero che la pulsione verso l’unificazione è anch’essa millenaria.
L’impero romano, la prima forma di Europa unita, si scioglie nella cristianità, che nella sua forma politica è così tanto europea da espellere fin dal V secolo il cristianesimo nestoriano della Persia, dell’India e della Cina. La cristianità europea si costituisce politicamente nel Sacro Romano Impero, che evolve nel Sacro Romano Impero della Nazione Germanica e nella monarchia asburgica, che tramonta nel 1918. La parentesi napoleonica è anch’essa paneuropea e si limita a sostituire l’universalismo giuridico romano e quello cristiano dell’Impero con l’universalismo secolarizzato giacobino.
Anche il Generalplan nazionalsocialista del 1940 è geopoliticamente paneuropeo, ma inverte completamente di segno il carattere universalista del primo e del secondo Reich. Primato dell’Herrenvolk, sterminio degli ebrei e schiavizzazione degli slavi contraddicono alla radice il modello dell’unità dei popoli europei sotto l’imperatore cristiano.
Risorta dalle rovine della guerra, l’Europa adotta nuovamente un progetto di unificazione basato sull’universalismo delle regole. È europeo chiunque accetti l’Acquis Communautaire, l’insieme delle leggi europee. Il repubblicanesimo francese e il patriottismo della costituzione, l’ideologia che Habermas elabora per la Bundesrepublik, sono il modello dell’ideologia europea.


L’universalismo europeo, nei suoi venti secoli di storia, non varca mai la soglia geopolitica continentale. L’Inghilterra normanna prova a installarsi in Francia, ma dopo la guerra dei cent’anni e la sconfitta se ne va per sempre dall’Europa, le dà le spalle e si rivolge agli oceani. Vi rimetterà piede solo per togliere di mezzo Napoleone, Guglielmo II e Hitler e per controllare, aderendo all’Unione Europea, che i burocrati di Bruxelles non le procurino danni. La Svezia se ne scende in Germania durante la guerra dei trent’anni ma da quel momento si ritira in uno splendido isolamento. L’adesione svedese e danese all’Europa è pragmatica, non ideologica. Metà dentro, metà fuori. E niente euro. La Turchia, dal canto suo, mette l’universalismo delle regole di Bruxelles di fronte a una contraddizione insanabile.
Il progetto europeo trova un limite non solo nella geopolitica, ma nella sua stessa genealogia. L’Europa, lungo i secoli, non si costituisce solo come fortezza tendenzialmente unificata per difendere dagli attacchi esterni la sua fede e il suo diritto, ma anche per difendersi da se stessa. L’Europa, da quando esiste, ha paura di se stessa, della guerra di tutti contro tutti e dell’anarchia in cui tende a precipitare quando perde la bussola dell’universalismo.

Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, scritta nel 52 d.C., Paolo invita la comunità cristiana ad avere pazienza. La Parousia, il ritorno del Cristo nel mondo, non è imminente. Prima del ritorno, come indica il libro dell’Apocalisse, sarà l’Anticristo a conquistare e sedurre i cuori degli uomini. Se l’Anticristo non ha ancora portato nel mondo il disordine (mysterium iniquitatis nella versione latina, anomia in quella greca) è perché qualcosa lo trattiene.
Il trattenitore (katéchon), in una tradizione teologico-politica bimillenaria che va da Tertulliano a Carl Schmitt, è l’imperatore romano, carolingio, asburgico, fino ad arrivare ai giorni nostri, volendo, all’Unione Europea, a Van Rompuy e alla Merkel. Il soggetto politico paneuropeo, nell’elaborazione di una corrente potente di giuristi, teologi e filosofi filoimperiali, diventa la difesa ultima contro l’anomia, la mancanza di regole e il disordine interno connaturato all’Europa.


Nella teologia della storia, come si vede, esiste una fortissima tensione irrisolta. È meglio arginare il disordine il più a lungo possibile, ritardando però in questo modo, oltre al disordine, anche l’instaurazione dell’ordine finale e la fine della storia o è invece meglio accelerare il disordine per renderne possibile la sconfitta finale? Robespierre, Lenin, Trotzkij e gli apocalittici in generale teorizzano l’accelerazione del disordine nel nome di un nuovo ordine che verrà. Il resto del pensiero occidentale preferisce arginare il disordine il più a lungo possibile.
La crisi politica italiana ripropone questa tensione. È meglio contenere il disordine e restare aggrappati all’euro (il nuovo katéchon) o è preferibile fare saltare tutto, mollare gli ormeggi, navigare da soli per qualche tempo e poi ricostruire l’Europa su basi nuove e finalmente durature?
Per ragionare bene è meglio sgombrare il campo dall’europeismo bigotto, quello che giudica incivile chi si colloca fuori dall’orizzonte tecnocratico di Bruxelles e considera l’euro un tabù. Diciamo quindi che si può benissimo vivere senza euro e che Svezia e Danimarca, che se ne stanno fuori (la corona danese è agganciata all’euro, ma può sganciarsi quando vuole), sono anzi indicate da qualche anno come esempi eccellenti di conservazione di uno stato sociale snellito (e in via di privatizzazione), di crescita economica (niente decrescita felice) e di tassazione in costante diminuzione.
Spingiamoci ancora più in là e sgombriamo il campo anche dal tabù della svalutazione. Non è vero che sia sempre una rovina, anzi. Se ben gestita può ridare energia e slancio. Tutto il mondo (tranne i concorrenti coreani e tedeschi) si sta complimentando con il Giappone per il rapido deprezzamento dello yen. Perché dovrebbe essere diverso per Italia e Spagna?
Nella vita, d’altra parte, non si può avere tutto. Non si può mantenere a lungo un sistema rigido al suo interno e un cambio rigido sull’esterno. Troppo bello. Si devono quindi fare delle scelte. Si può mantenere rigida la struttura interna e scaricare le tensioni su un cambio flessibile (modello argentino). Si può mantenere fisso il cambio e rendere flessibile la struttura interna (modello irlandese ed estone). Si può rendere più flessibile la struttura interna e allo stesso tempo svalutare, come fu fatto in Svezia dopo la crisi bancaria dagli anni Novanta. In quel caso, grazie all’accresciuta flessibilità interna, la svalutazione fu temporanea e fu seguita più tardi, dal 2009 a oggi, da una costante rivalutazione.
Se invece si vuole tenere rigido tutto, mercato del lavoro e cambio, le tensioni si scaricano sulle imprese, che piano piano fanno ciao con la mano e se ne vanno all’estero. È la deindustrializzazione, il modello italiano.


È a questo punto che dobbiamo guardarci negli occhi e fare qualche discussione da adulti. Se usciamo dall’euro saremo capaci di fare come la Svezia e di accompagnare la svalutazione con una flessibilizzazione della nostra struttura o non seguiremo piuttosto la via argentina, quella di mantenerci eternamente rigidi ricorrendo periodicamente alla svalutazione? La via argentina porta a un rimpicciolimento costante dell’economia in rapporto agli altri paesi. Questo ridimensionamento, nel caso argentino, è rallentato dalla scoperta continua di risorse naturali abbondanti. Noi, queste risorse, non le abbiamo. Quanto alla nostalgia degli anni pre-euro, non dimentichiamo che tranquillità e benessere ce li compravamo, oltre che svalutando, con un debito pubblico crescente.


Messe contro il muro, le singole classi dirigenti nazionali del nostro continente continuano dunque a scegliere l’Europa e l’euro non per idealismo, ma perché hanno paura di se stesse. Detto questo, l’euro è costruito così male e l’austerità disegnata dalla Germania è così controproducente che lo spazio per migliorare il progetto complessivo è davvero ampio.
Qualcosa sta già cambiando e non è poco. Tutti gli obiettivi di disavanzo pubblico sono rinviati di un anno. Ha cominciato la Spagna, ha proseguito il Portogallo e ora tocca a Francia e Italia. Tutta la politica fiscale europea sta passando da fortemente restrittiva a neutrale e perfino espansiva. A questo sta corrispondendo un modesto irrigidimento della politica monetaria, ma l’effetto combinato monetario e fiscale è di fatto espansivo. Non si può dirlo forte, ma l’austerità è rinviata e forse è finita.
Guadagnare un anno non è una brutta cosa, ma per massimizzare e prolungare nel tempo gli effetti di questa boccata d’ossigeno bisognerà che la Germania sostituisca obiettivi qualitativi ai target numerici che ha fin qui imposto ai suoi partner. È meglio una riforma strutturale di un aumento di tasse, è meglio un taglio di spese accompagnato da una riduzione di tasse piuttosto che un disavanzo tagliato con stangate fiscali.
La crisi italiana, per il momento, ha comunque la fortuna quasi sfacciata di cadere in un momento di mercato assolutamente magico. Le imprese americane producono e assumono per ricostituire scorte. I consumi vanno piano, ma la discesa appena iniziata del prezzo della benzina li farà risalire. Sia come sia, una crescita debole conferma la Fed nella sua volontà di perseguire una politica monetaria aggressivamente espansiva a perdita d’occhio. La politica fiscale leggermente restrittiva, grazie anche ai tagli automatici di bilancio che stanno per scattare, non cambia la natura complessivamente pro-crescita della politica economica americana.
Il Giappone si è ormai avviato verso una strada di reflazione a tappe forzate. In Cina la nuova leadership si sta mostrando prudente, ma è probabile che nei prossimi mesi accentui gradualmente il suo profilo pro-crescita. La Germania ha ripreso a camminare (piano) e il resto d’Europa va un po’ meno peggio del previsto. Le borse si trovano poco al di sotto dei massimi storici del 2008 e si sa che in questi casi la voglia di fare segnare un nuovo record è praticamente irresistibile.
Nel breve tutti i semafori sono verdi e i vigili delle banche centrali sorridono e fanno segno di accelerare. La crisi italiana è un motivo in più per allestire un cordone sanitario fatto di buonumore e propensione al rischio. Nelle prossime settimane le cose cominceranno a complicarsi. Fatti nuovi massimi, i mercati si sentiranno più incerti. I tagli americani toglieranno 650mila nuovi occupati al mese. I dati macro che verranno pubblicati in maggio e giugno saranno piuttosto grigi. C’è però ancora tempo.


Il rosso e il nero - Settimanale di strategia finanziaria - Alessandro Fugnoli +39 02 777181 (Kairos Partner - Milano)

mercoledì 6 marzo 2013

Panorami da tutto il mondo


Categoria : viaggi

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domenica 3 marzo 2013

IL NIPOTE DI KANDINSKIJ (28 febbraio 2013)

Il peccato originale dell’Europa e dell’euro

Categoria : finanza
 

Il 14 ottobre 1806 Napoleone, poche ore prima della battaglia che lo vedrà trionfatore, passa a cavallo, in ricognizione, per le strade di Jena. Hegel lo scorge dalla finestra, si emoziona e ha una visione. Sotto casa sua, pensa, sta passando lo Spirito del Mondo e si sta realizzando la fine della Storia. Che cos’è infatti la storia umana se non una sequenza di conflitti ideali, politici e militari? Napoleone sta ponendo fine a tutto questo. Fra poco regnerà sul mondo la pace universale e perpetua nel nome degli ideali rivoluzionari e la storia avrà finalmente fine.
Hegel, a Jena, stava completando la Fenomenologia dello Spirito. Su questo testo, letto attraverso lenti marxiane e heideggeriane, Alexandre Kojève tiene alla Sorbona, dal 1933 al 1939, una serie di seguitissimi seminari che resteranno memorabili. Tra i suoi allievi ci sono Sartre, Bataille, Lacan, Aron e Merleau-Ponty. Kojève, alla vigilia di una guerra che devasterà l’Europa, ha la lucidità di vedere lontano. Il processo storico universale, che ha prodotto il capitalismo e il socialismo, sta per concludersi in una sintesi unitaria che li supererà entrambi. In questo contesto riconciliato il conflitto non avrà più senso perché il mondo sarà deideologizzato e sarà governato da un’unica tecnocrazia benevola e sovranazionale, che permetterà agli uomini emancipati dal bisogno di dedicarsi all’arte, all’amore e alla felicità.
Personaggio affascinante, inquietante e a tratti tenebroso, Kojève, un russo francesizzato nipote di Kandinskij, prende appunti in sanscrito e parla in tibetano. Ammira Stalin e lo aiuterà per 30 anni come agente di altissimo bordo del KGB. Non lo farà nello spirito romantico alla le Carré dei giovani comunisti occidentali degli anni Trenta che diventano spie del Cremlino, ma considerando Stalin come una specie di allievo al quale insegnare come funziona il mondo.
Durante la guerra, nella Resistenza, Kojève stringe un rapporto molto stretto con il suo superiore militare, Jean Monnet. Visionario irrequieto e dotato di straordinaria energia, Monnet, piantati gli studi a 16 anni, si propone ai politici di mezza Europa con il suo progetto di unificazione surrettizia e nascosta del continente. Cominciamo con l’unificazione economica, dice, creiamo una tecnocrazia comune e tutto il resto verrà da sé e l’unità politica arriverà per ultima.
Finita la guerra, de Gaulle adotta Kojève e Monnet e li pone alla testa della delegazione francese nelle nascenti istituzioni europee, da loro due disegnate e proposte. Kojève e Monnet usano de Gaulle e la forza politica della Francia per il loro disegno tecnocratico. De Gaulle, che è un nazionalista e non un tecnocrate, usa i due per la loro abilità di inventare soluzioni che massimizzino i benefici per la Francia a spese della Germania. La mitica comunità del carbone e dell’acciaio, embrione dell’Unione Europea, e, più tardi, la politica agricola comunitaria sono invenzioni di Kojève e di Monnet che costeranno una montagna di soldi alla Germania e li trasferiranno alla Francia. Adenauer, in cambio, verrà santificato e collocato nel pantheon dei padri fondatori dell’Europa.
Nel 1989, quando cade il Muro e nasce l’euro, Kojève e Monnet non ci sono più, ma le loro due idee di fondo, l’eurocrazia tecnocratica e il contenimento francese della Germania, continuano a spiegare perfettamente tutto quello che succede in Europa fino a oggi e che succederà ancora nel futuro. L’euro nasce in fretta come idea francese, senza la minima consultazione popolare, per imbrigliare la Germania riunificata in un’unione più ampia. Questa unione dovrà diventare politica e, in particolare, dovrà diventare un’unione dei trasferimenti in cui i soldi tedeschi affluiranno copiosi (e questa volta per sempre) agli altri paesi, Francia in testa.
Altiero Spinelli disse una volta che l’Europa unita deve tutto a Monnet, incluso il fatto di essere nata sbagliata. Spinelli aveva in mente una costituente europea sul modello di quella americana e un impianto democratico, non tecnocratico. Spinelli perse, Kojève e Monnet vinsero.
I popoli, come insegna l’esperienza cinese, accettano volentieri forme ridotte di democrazia e sovranità finché viene dato loro in cambio un benessere crescente. Le elezioni italiane mostrano che nel momento in cui questo benessere non è più percepito l’accettazione del patto politico europeo inizia a venire meno.
Il malcontento si indirizza vero la Germania e non verso l’eurocrazia perché in questi ultimi anni la Germania, capendo che si sta avvicinando il momento di non ritorno in cui dovrà iniziare a trasferire enormi risorse al resto del continente, ha cercato di alzare il prezzo della sua resa imponendo ai partner un risanamento strutturale. Questo risanamento, indebolendo i partner, li ha resi ancora più dipendenti dalla Germania ma ha leso in modo grave il consenso di tutti, tedeschi e non tedeschi, al progetto comune.
Non solo l’Europa è costruita male, ma anche l’euro. Un’area valutaria ottimale è definita da quattro criteri, ovvero mobilità del lavoro, mobilità dei capitali e flessibilità dei salari, trasferimenti fiscali automatici redistributivi e simultaneità dei cicli economici tra i paesi dell’area.
La mobilità del lavoro c’è sulla carta, ma non c’è in pratica. I capitali sono stati fin troppo mobili negli anni scorsi e ora lo sono troppo poco. La flessibilità dei salari è quasi inesistente. I trasferimenti automatici, che in un’area che funziona dovrebbero essere temporanei, al momento non esistono e, quando ci saranno, avranno natura permanente. La simultaneità del ciclo è completamente saltata.
I politici europei, a questo punto, si trovano in mezzo al guado in una posizione molto scomoda che solo la Merkel ha qualche interesse a prolungare per mantenere il consenso elettorale di cui gode. Il rischio del rinvio dell’unione dei trasferimenti è che il costo per la Germania diventi alla fine sempre più alto. La progressione del debito pubblico dell’Eurozona è stata rallentata con enorme fatica, ma la mancanza di crescita economica e la crisi di consenso rischiano da un momento all’altro di farla riesplodere.
L’estrema delicatezza del momento sta già inducendo la Germania ad allentare vistosamente la pressione sui partner. La Spagna ha potuto produrre a consuntivo un disavanzo 2012 superiore al 10 per cento e da Berlino sono arrivate solo espressioni di incoraggiamento e fiducia. Gli obiettivi 2013 verranno mancati in tutta l’Eurozona, lo si sa già e ci si volta dall’altra parte. Ai tempi di Theo Waigel il disavanzo doveva essere sotto il famoso tre-punto-zero sia in tempi di boom sia in tempi di carestia. Oggi si è adottato il disavanzo strutturale, che è l’equivalente per gli stati dei fantastici modelli di Basilea 2 che le banche usano per valorizzare i loro titoli ai prezzi che preferiscono. Se avessimo le ruote saremmo tutti dei tram e andremmo anche velocissimi. Il caso vuole che le ruote non le abbiamo, ma non fa niente.
Anche la Bce si appresta a tornare in campo. Per ora lo fa con un discorso di Draghi che richiama nei toni aggressivi quello storico di luglio. In caso di richiesta, è lecito supporre, l’Omt verrà concesso a qualsiasi governo italiano a condizione che abbia la cortesia di non dichiarare esplicitamente che mancherà gli obiettivi concordati da tempo con Bruxelles. Bernanke sta già facendo la sua parte dissipando ogni dubbio sulla durata del Qe. Giappone e Inghilterra si daranno da fare e la Cina, sempre terrorizzata dall’Europa, toglierà subito, verosimilmente, quel piede che stava iniziando a posare dolcemente sul freno per paura di un riavvio dell’inflazione immobiliare.
In pratica il mondo comprerà altro tempo con nuove ulteriori dosi di analgesici monetari e, in Europa, anche fiscali.La crisi italiana ha la sfortuna di coincidere con un rally ormai maturo delle borse e con l’imminenza dei tagli automatici di bilancio in America. Ha però la fortuna di avvenire in un contesto monetario ultraespansivo e in un mondo così fragile da non potersi nemmeno permettere una correzione dei mercati.
Grillo rischia dunque di prolungare il rialzo globale degli asset finanziari. I mercati, in questi nove mesi, hanno digerito anche i sassi (si pensi al fiscal cliff) e ora sembrano in grado di digerire anche lui. Al fondo resta però il tema della fragilità estrema dell’Italia e dell’Europa, quella fragilità che, come ha notato giustamente Buiter nelle settimane scorse, pensiamo ogni volta superata e che si ripresenta ogni volta puntuale. E continuerà a farlo perché, come abbiamo visto, è strutturale.
Quanto al sequester, l’impatto per il 2013 è stimato in 85 miliardi. Il caso vuole che di 85 miliardi sia anche l’importo dei titoli che la Fed acquista ogni mese in base al suo programma di Quantitative easing. Il moltiplicatore non è lo stesso, stiamo paragonando le pere con le mele, ma che per una mela in meno all’anno ci sia una pera in più al mese vorrà pure dire qualcosa.
In queste ore abbiamo assistito nei mercati a un alternarsi o addirittura a un convivere di atteggiamenti di forte preoccupazione per l’Italia e inviti a profittare della bella occasione di comprare a sconto sulla correzione. A noi viene da suggerire di non muoversi troppo e di tenere l’Italia che si ha in portafoglio senza aggiungerne dell’altra. I Btp sono scesi di poche figure e non hanno raggiunto quei livelli di sconto più profondo che potrebbero giustificare altri acquisti. La crisi politica italiana avrà tempi lunghi.
Quanto all’euro, saremmo venditori su rimbalzo.


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